Qualcosa di diverso.
Questa volta nessuna pretenziosa disamina cinematografica.
Perché “cambiare, in fondo, è non ripetersi”.
Questo bel verso, brutalmente saccheggiato da un pezzo dei Gazebo Penguins1, rappresenta idealmente la genesi del pezzo che state leggendo.
L’idea - naturalmente - era quella di non procedere col pilota automatico sulla strada già battuta nelle puntate precedenti.
Immaginate lo stupore che mi ha colto, quindi, quando mi sono accorto che questo terzo post2 sarebbe stato niente più che la riproposizione 1:1 di un minuscolo racconto scritto e pubblicato dal sottoscritto durante la Primavera del 20183.
Un po’ di contesto: il Collettivo scrittori a tempo perso4 è stato una sorta di rivista web aperta e inclusiva destinata a raccogliere scritti - poesie e racconti brevi principalmente - di tutti coloro che avessero voglia di scriverne. Il progetto, nato dalle menti bacate del sottoscritto e dell’amico Francesco Stampati5, aveva l’obiettivo di stimolare la creatività attraverso una serie di piccole sfide.
La prima di queste - credo pure la più bella e riuscita - consisteva nel sorteggiare una parola che sarebbe stata il perno concettuale attorno a cui costruire il proprio pezzo.
Il perno del raccontino che segue è - come avete intuito dal titolo - la parola “copia”.
Ho deciso di non modificare il testo che, nella sostanza e nella forma, è identico a quello pubblicato 6 anni fa.
Un po’ perché ogni modifica o integrazione mi sarebbe sembrata una vera e propria violenza verso il me-del-passato per cui, nonostante tutto, provo una cosa che assomiglia all’affetto.
E un po’ pure perché c’è qualcosa in questo testo che mi piace. Non so ancora esattamente che cosa, ma c’è.
Perciò - solo per questa volta - ripetiamoci.
C O P I A
“Ma come sarebbe a dire che mi lasci?”
Borbottai “sarebbe a dire che ti lascio” spingendo le guance all’insù fino a schiacciare e nascondere quasi del tutto i miei grossi occhi blu sperando di farle credere di non stare sottraendomi al suo sguardo severo ma che, al contrario, stavo sforzandomi di capire.
Non mi stavo sforzando davvero.
Aveva ragione a chiedermi di spiegare: chi più di lei aveva il diritto di capire come mai avevo deciso di abbandonare il vascello e proseguire a nuoto, da solo, verso la prossima isola?
Non voleva convincermi a ripensarci; aveva capito scrutando nella fessura azzurra sul mio volto che non scherzavo, che non potevo cambiare idea, che oramai ero molte bracciate avanti a lei.
Perché voleva saperlo?
Voleva forse comprendere quale glitch aveva intaccato il funzionamento della sua relazione?
La infastidiva non capire.
Lo leggevo chiaramente nel suo sottile sopracciglio tremulo.
Ma la sua irritazione, che provocava in me un misto di soddisfazione e contrizione, non aveva nulla a che fare con un interesse nei confronti della sfera interiore del ragazzotto biondo che si trovava di fronte.
Al contrario, la sua frustrazione assomigliava a quella di un programmatore che, furibondo, è costretto a constatare il malfunzionamento del software da lui progettato con perizia e attenzione.
Lei, infatti, voleva cercare di capire il tipo di glitch che aveva mandato tutto a puttane.
Il perché, con la lucidità che avevo acquisito giusto poche ore prima, mi sembrò ovvio: voleva evitare il ripresentarsi dello stesso malfunzionamento al tentativo successivo.
Le dissi “non ti amo” a cui aggiunsi frettolosamente “non ti ho mai amato!”, cercai di spiegarle con delle pretenziose metafore che “niente al mondo dura per sempre”, le raccontai come semplice e gioiosa sarebbe stata la sua vita da bella studentessa di legge senza le mie pressioni, le mie lamentele, le mie pretese.
Ma neppure per un istante considerai di dirle la verità.
Dovete sapere che il giorno precedente, infatti, dovetti portare Churchill, il cane del mio coinquilino, a spasso al parco in quanto quest’ultimo mi aveva detto di avere “improrogabili impegni di studio” sollevando per un attimo le labbra dalla sua pipa ad acqua.
Non mi piaceva Churchill e ancor meno mi piaceva passeggiare in sua compagnia nel parco anche e soprattutto per le detestabili conversazioni con i miei colleghi di fardello in cui, spesso e volentieri, rimanevo imbrigliato.
Quella sera, però, incontrai una persona che non avevo mai incontrato prima: un ragazzo grosso e biondastro con i capelli rinchiusi in uno sgraziato chignon. Non appena entrai nel parco con il grasso mammifero puzzolente che mi portavo dietro mi accorsi che ci aveva notati e che non ci staccava gli occhi di dosso.
Terminata la lunga osservazione che, come scoprii, era servita a identificarmi, si incamminò verso di noi lasciando il suo peloso compagno di viaggio alla mercé di quella che sembrava un’agguerritissima coppia di cani randagi che mi divertii a soprannominare mentalmente Adolf e Hirohito.
Mentre provavo a immaginare le angherie a cui il piccolo cagnolino sarebbe stato sottoposto per mano dei due tiranni, il padrone mi raggiunse e mi propose una stretta di mano.
Ero reticente ma come potevo sottrarmi?
“Il solito discorso sulla cacca da raccogliere, i cibi da evitare, la toelettatura da fare” - pensai - mentre con le labbra sputavo fuori il mio nome.
“Lo so chi sei” fece lui, sudatissimo.
“Ah, lo sai?” dissi io.
Mi rispose “Certo, io ero il ragazzo di Lia. Tu sei quello nuovo, no? Piacere, Tertulliano” spingendo le guance all’insù fino a schiacciare e nascondere quasi del tutto i suoi grandi occhi blu sperando non mi accorgessi che erano carichi di lacrime.
Mi piace pensare che anche lui, in quell’esatto momento, si rese conto di essere stato solo un trascurabile esemplare della specie “partner sessuali di Lia”, sostituibile, svuotato del proprio valore individuale e condannato a essere copia di un modello già elaborato, di un disco già inciso, di un libro già stampato che le magre dita di Lia avrebbero potuto afferrare.
La canzone “Cosa fai domani” dei Gazebo Penguins è parte dell’album “Quanto” (2022, Garrincha Dischi) ed è pure molto bella.
Mi piace tenere il conto perché continuo a stupirmi aver superato il primo!
Come potete verificare voi stessi il pezzo è stato originariamente pubblicato il 27 Maggio 2018. CSATP - Racconto “Copia”.
L’ultima volta che ho controllato la testa di Francesco non era poi così bacata. Ma, per sua sfortuna, sono per la collettivizzazione dei bachi.