“Zendaya è una palla!”
Sono queste le parole con cui, ascoltando Compress/Repress di Trent Reznor e Atticus Ross, ho tentato di sintetizzare la mia personalissima interpretazione di “The Challengers”, ultima opera di Luca Guadagnino.
In effetti, è proprio di questo che parla questo breve - spero - pezzo.
Il lettore-target che immagino e a cui mi rivolgo, naturalmente, ha già visto la pellicola (e ne ha probabilmente sviluppato pure un’interpretazione migliore!).
“The Challengers” parte dal più classico dei trope narrativi del cinema melò e sentimentale: il triangolo.
Tashi (Zendaya), Patrick (Josh O’Connor) e Art (Mike Faist) sono i tre vertici del poligono.
Il conflitto tra i due contendenti ha, però, poco a che fare con il sesso - eppure la carica erotica del film è fortissima - e parecchio a che fare con il tennis.
Chi vince ottiene il numero di Tashi.
Da un punto di vista simbolico, Tashi rappresenta la vittoria, il successo.
Non è un caso che Tashi scelga in un primo momento Patrick - il primo a entrare nel mondo professionistico - e che lo allontani nel momento in cui comincia a collezionare imbarazzanti sconfitte. E non è un caso che Tashi accompagni, nelle doppie vesti di moglie e coach, Art nella sua carriera di top professional tennis player.
Nel mondo di Tashi bisogna giocare per vincere. Una cosa molto seria. Più seria della propria figlia, più seria del sesso, più seria della felicità e definitivamente più seria di un’amicizia fraterna.
Il tennis è una cosa da adulti.
Nel tentativo di ottenere così amore e considerazione da sua moglie, Art sprofonda in questa visione e la crede sua.
Un elemento, però, lo tradisce. Non si tratta di un elemento interno alla storia ma squisitamente filmico. Parlo della energica e vorticosa colonna sonora composta dai già citati Reznor & Ross.
Fin dall’inizio della pellicola è chiaro che la musica - spesso talmente chiassosa da coprire e sporcare i dialoghi - è la trasposizione in note del sentire - vorticoso ed energico pure lui - dei due giovani protagonisti maschili.
La musica scoppietta al ritmo dell’adrenalina durante i match, ribolle vigorosamente con l’eccitazione e fermenta con la collera.
La soundtrack del film esprime emozioni ingestibili (e pure in-esplicitabili e in-riconoscibili). E non è un caso1 che essa si ritagli un ruolo preponderante per l’intera durata del lungometraggio. I suoi protagonisti non guidano le loro emozioni ma ne sono guidati.
Come bambini.
Patrick, che per gran parte del film è portatore di questo sentire, ha già archiviato la sua carriera da professionista ma, sporco e squattrinato, si presenta al Challenger di New Rochelle. Per vincere? No. Per un po’ di grana? Forse. Per giocare? Sicuramente.
Un elemento a sostegno di quest’ultima ipotesi: nel confronto diurno tra l’ex-fidanzato e Tashi scopriamo che, a dispetto delle apparenze, egli non è affatto uno sfortunato nullatenente. Al contrario, e non differentemente dall’ex-amico, è figlio di buona famiglia e potrebbe in qualsiasi momento appendere la racchetta al chiodo e ricoprire un prestigioso incarico dirigenziale.
Il fatto è che non ne ha nessuna intenzione. Non ha nessuna intenzione di crescere.
Perciò il conflitto, sul piano simbolico, diventa giocare per vincere vs. giocare per giocare.
Credo che l’elettrizzante tie-break finale segni il momento in cui Art, inappagato dal modo adulto e serioso di vedere lo sport e le relazioni, riacquista, grazie al sorriso beffardo offertogli dall’amico, una interpretazione infantile e giocosa del mondo.
Alla fine, forse, il tennis non è una cosa seria. E nemmeno le relazioni2.
Forse i due ragazzi non avevano che bisogno di qualcosa con cui giocare.
Una palla da tennis.
Zendaya.
Forse uso troppo spesso questa espressione. Peccato che il mio correttore di bozze sia io. E non è un caso.
Forse non mi sono soffermato abbastanza sul fatto che il tennis e le relazioni sono, nell’universo simbolico del film - e sempre secondo il mio deprecabile parere - la stessa cosa.