Un celeberrimo artista pugliese1 nel 2003 scriveva:
Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista.
Per qualche settimana ho pensato che valesse lo stesso discorso pure per il mio secondo post su “La Risacca”.
Per fortuna - non senza lo schietto e pure un po’ indelicato suggerimento di qualcuno - mi sono ricordato che questi post non li legge praticamente nessuno e che, pertanto, non c’è nessuna aspettativa da “gestire” o di cui preoccuparsi.
Perciò… andiamo avanti!
Qualche giorno fa leggevo un bel pezzo su badtaste.it in cui Gabriele Niola spiega come la filmografia di Paolo Sorrentino2 alterni in maniera lineare e sistematica un film grosso, importante e dal successo dirompente (Il Divo, La Grande Bellezza, È stata la mano di Dio) a uno più piccolo, nato da esigenze forse più personali e destinato a una risonanza mediatica limitata (This Must Be The Place, Youth, Parthenope).3
Mi trovo piuttosto d’accordo.
Aggiungerei che i film del secondo gruppo non sono, nella maggior parte dei casi, proprio memorabili o riuscitissimi.
Cionondimeno sono legato in maniera profondissima proprio a una di queste pellicole minori.
E - indovinate un po’ - oggi parliamo proprio di questo.
Il film in questione è, come avrete intuito dall’immagine qui sopra, il This Must Be The Place del 2011.
Per i detrattori del regista napoletano si tratta dell’ennesimo caleidoscopio di aforismi supponenti, boriosi e pure un po’ antipatici tenuti insieme da una trama appiccicaticcia e fondamentalmente vuota.
In effetti, riguardando il lungometraggio proprio per prepararmi alla stesura di questo pezzo, mi sono accorto di avere appuntato sul block-notes4 almeno una dozzina abbondante di frasi a effetto.
Pur di convincermi che non è stata fatica sprecata ve ne lascio qualcuna.
frase a effetto n. uno:
Stanotte mamma mi ha preso la mano. E ha detto che il dolore non è la destinazione finale. Io ho capito solo che la gente a volte se ne va. Se n’è andato mio fratello. Te ne sei andato tu.
massima n. due:
Lo sai qual è il vero problema, Rachel? Che passiamo senza neanche farci caso dall’età in cui si dice “un giorno farò così” all’età in cui si dice “è andata così”.
n. tre:
La paura ti salva, ti salva sempre.
Ma bisogna scegliere una volta nella vita - anche solo una - in cui non avere paura.
e quattro:
Hai notato che nessuno lavora più e tutti fanno qualcosa di artistico?
A me, che non sono un detrattore, piace definire This Must Be The Place come uno strano revenge-movie on-the-road che ha per protagonista un uomo travestito da ragazzino.
Vale la stessa regola del precedente pezzo su The Challengers: l’articolo è rivolto a chi ha già visto il film ed è pronto ad accoglierne un’interpretazione nuova, curiosa, sicuramente e ostinatamente sbagliata.
“This Must Be The Place” - e credo questo sia un passaggio assolutamente condivisibile - è un film di padri e di figli.
Il loro rapporto non viene qui mostrato come apertamente conflittuale ma, piuttosto, lacerato da silenzi, solitudini incrociate, fughe e incomprensioni.
Cheyenne - il protagonista - non parla con suo padre da vent’anni.
“A 15 anni - dice - ho stabilito che non mi voleva bene”.
Immagino che sia proprio quello il momento in cui questo anonimo quindicenne diventa “Cheyenne”, la rock-star. Il nome di battesimo - quello “vero” - non lo conosciamo.
D’altronde l’ha ricevuto proprio da suo padre.
Conosciamo il personaggio interpretato da Sean Penn già a carriera finita, in un’età indefinita ma che sicuramente finisce per -anta. Eppure lo vediamo, fin dalla sequenza di apertura e per tutta la pellicola, truccato alla maniera di Robert Smith (The Cure), muoversi con passo goffo e incerto, sbuffare per aggiustarsi il ciuffo, contenere a fatica le emozioni del momento e calibrare a stento il tono della voce.
Nelle interazioni sociali è - tutto insieme - curioso e caustico, infantile e arrogante, saggio e ingenuo.
Sembra di guardare un alieno che scopre il mondo. Ne è incuriosito, certo, ma non ne fa parte.
Può, quindi, da una posizione di vantaggio (cioè esterna) commentarlo, svelarne con cinismo le ipocrisie.
Per questo le tipiche “frasette” a-la-Sorrentino auto-compiaciute e un poco sprezzanti qui mi sembrano particolarmente ben inserite.5
Un alieno, quindi. Ma non era un “uomo travestito da ragazzino”?
Forse non c’è una grossa differenza. Il rifiuto - subito - del padre si ribalta e diventa il rifiuto - stavolta agito - di Cheyenne verso il senso comune, i modi borghesi, le convenzioni, il sistema di significati costruiti collettivamente.6
Cheyenne non fuma perché il mondo fuma. È la cosa più “punk” da fare.
Dicevo che il film parla di “padri” e figli. Quando scrivo “padri” mi riferisco in maniera generica alle generazioni precedenti.
C’è un altro figlio nel film.
Si chiama Tony e la sua presenza è tutta teorica: non compare mai ma viene nominato spesso.
“È tornato Tony?”
È andato via all’improvviso e senza dare tante spiegazioni.
Sua madre, devastata dalla scomparsa, lo attende alla finestra. Ma è un’attesa inutile e irrisolvibile, come quella del teatro dell’assurdo.
Ci sono poi gli Arcade Fire, figli, e i Talking Heads, padri.
La splendida canzone che da il titolo al lungometraggio è stata re-interpretata dalla band canadese ma - come lo stesso Cheyenne puntualizza - l’originale è opera di David Byrne e soci.
Quindi: tramandare e reinterpretare l’opera dei padri.
A tal proposito: con la morte del padre Cheyenne riceve un lascito, una “missione”.
Una vendetta da compiere.
L’obiettivo è dare la caccia all’uomo da cui il genitore è stato ossessionato per più o meno tutta la vita. Si tratta di un certo Aloise Lange, un soldato nazista, suo aguzzino ai tempi del campo di concentramento.
Cheyenne accetta la “missione”, alla ricerca tardiva di un contatto con il genitore.
Non è la sua vendetta: è la cover della vendetta di suo padre.
Il viaggio, che parte da Dublino e lo porta negli Stati Uniti tra New York, il New Mexico e lo Utah, culmina con il tanto atteso “showdown” finale.
Il vecchio Aloise Lange, estraendoli a fatica dal suo ormai nebuloso passato, racconta finalmente i fatti:
Nell'inverno del '43 si faceva l'appello nel campo.
Lui fece qualcosa di sbagliato. Non ricordo bene che cosa.
Comunque minacciai di farlo sbranare dal pastore tedesco. Il cane gli righiò contro.
Lui per la paura si pisciò nelle mutande.
E io mi misi a ridere. Sonoramente.
Questo è il fatto.
Questa è l'umiliazione.
Un fatto - aggiungo io - non proprio di eccezionale gravità. Un fatto, in fin dei conti, tutto sommato insignificante. Perlomeno se rapportato al contesto. Contesto che è da un punto di vista spaziale il campo, da un punto di vista temporale tutta la vita di un uomo.
Eppure nell’esperienza soggettiva del padre-di-Cheyenne la cosa più importante e significativa di tutte. A tal punto da riverberarsi oltre i confini di quella singola vita e sorpassare le generazioni.
Per il vecchio ebreo l’odio per Lange è la trasfigurazione - certamente più “gestibile” - dell’odio per il nazismo, della disperazione per una giovinezza negata, del rancore per una esperienza di vita sfigurata irrimediabilmente.7
Il fatto di per sé assolutamente insignificante imprevedibilmente si riempie di significato nell’esperienza vissuta dal soggetto-che-vive.
E allora, per poter capire i nostri padri8, dobbiamo provare ad ascoltare le loro più irragionevoli ragioni.
Comunque,
Tony non è più tornato.
Avrà trovato la sua strada tra le dune del New Mexico.
il celeberrimo artista pugliese in questione è, naturalmente, Michele Salvemini aka Caparezza e il pezzo citato è “Il Secondo Secondo Me” (da Verità Supposte, 2003).
Dai, lo sai chi è PAOLOSORRENTINO. Eddài.
L’articolo in questione è proprio la recensione dell’ultima fatica di P.S. presentata a Cannes 77. Potete leggerlo qui: Recensione "Parthenope" (Gabriele Niola).
Il miglior alleato di ogni professionista che si rispetti!
A dire la verità credo che tutti i protagonisti di Sorrentino siano, in una maniera o nell’altra, staccati dalla realtà, alieni, “smarriti”, alla ricerca di un significato perduto. Magari ne parliamo un’altra volta.
Se preferisci: la cultura.
“Gestibile” perché si può dare la caccia a un singolo uomo, punirlo, seviziarlo.
E - naturalmente - pure per capirci tra noi!